CENTO (FE) 20/03/21- ( DI IRENE FINI) “ARTE IN PILLOLE DI IRENE FINE”… “L’ANIMA DELLA BELLEZZA: LA PRIMAVERA DI SANDRO BOTTICELLI” …
Leggerezza, armonia, profumo sono questi gli aggettivi che descrivono e impreziosiscono la
“Primavera” di Sandro Botticelli. La grande tavola venne raccontata con ammirazione già dal Vasari
e la scoperta di un inventario del 1498 accertò l’originaria collocazione del quadro in una stanza di
Palazzo Medici in via Larga a Firenze. Attualmente conservata presso la Galleria degli Uffizi,
l’opera, secondo quanto indicano le fonti, fu realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici,
cugino di secondo grado di Lorenzo il Magnifico. “La Primavera” è sicuramente una delle opere più famose di Botticelli, ma anche la più ambigua; nel corso degli anni tanti sono stati gli studi che hanno cercato di comprendere fino in fondo il reale significato dei personaggi. Sta di fatto che qua Botticelli, artista di bell’aspetto ma anche
malinconico ed introverso, dà sfoggio delle sue capacità artistiche-narrative: ogni personaggio,
attraverso i propri attributi, accompagna l’occhio dell’osservatore lungo un filo invisibile, fino a
raggiungere il cuore della tela, riuscendo a stimolare gradualmente tutti i cinque sensi.
Con una lettura insolita, da destra verso sinistra, si ritrova Zefiro, vento primaverile che insegue la
ninfa Clori dalla cui bocca escono fiori di ogni specie; e dalla loro unione nasce Flora, colei che
darà il nome poi al dipinto. Ecco come la Primavera avanza con il suo passo leggiadro e,
osservandoci, raccoglie dal vestito dei fiori variopinti. Ci guarda anche Venere, al centro della
scena, che qui non è più immagine dell’amore carnale, ma rappresenta il simbolo dell’attività
spirituali, definita anche come Humanitas. Anche per questo che la “Primavera” di Botticelli
costituì un’opera importante per quel gruppo di intellettuali che vedevano nella dottrina di Ficino,
umanista del XV secolo, una raffinata esperienza di vita: la bellezza veniva intesa come un mezzo
per innalzarsi ed abbandonare l’opaca dimensione terrena. Sopra la testa di Venere, volteggia suo figlio, Dio dell’amore meglio conosciuto come Cupido, che, bendato, sta per scoccare una freccia infuocata. Ritornando giù, la nostra vista si intreccia nelle mani delle Grazie: delicate, bellissime e concentrate nella loro danza ipnotica; sembra quasi di sentire i loro passi sull’erba e di percepire la leggerezza dei loro veli, mossi dal vento. All’estrema
sinistra, dai calzari alati, un Mercurio indaffarato scaccia con un bastone le nubi per preservare
un’eterna primavera nel giardino. È Il giardino delle Esperidi che forma una sorta di abside naturale
con alberi di aranci colmi di frutti e un prato disseminato di fiori. La mancanza reale di spazialità è rimarcata da ogni singolo personaggio, disegnato e descritto da una linea morbida ed elegante. Le figure non sono disposte a diversi livelli secondo le regole della prospettiva, ma presentate su un piano molto ravvicinato rispetto allo spettatore; lo sfondo tende ad imitare la profondità simile ad un fondale teatrale. Tutto funge da quinta scenica per la massima espressione di una bellezza trionfale: la natura si risveglia, i profumi aleggiano nell’aria,
solleticando il nostro olfatto, sbocciano i fiori, nasce la Vita.